Andrea Mingardi, anima ’black’: "Ma non rinuncio al mio dialetto"

“I concerti sono qualcosa alla quale faccio davvero fatica a rinunciare” racconta Andrea Mingardi. E infatti, è tornato con un tour estivo che lo sta portando in giro per l’Italia. Domani a Ozzano, nell’ambito della rassegna Agosto con Noi, a cura di Umberta Conti e Sergio Principe per raccogliere fondi in favore dell’istituto Ramazzini (lo show inizia alle 20,30 in viale Due Giugno). Mercoledì sarà poi a Fano, il 6 settembre a Monteacuto delle Alpi e il 12 ad Argenta, nel Ferrarese.
Un concerto che ripercorre oltre cinquant’anni di musica e storie, eventi e cambiamenti.
Andrea Mingardi, come sono andate le prime date?
“Molto bene. La piazza era caldissima, avevo accanto la mia band storica, c’era tanta energia. Dopo un periodo di pausa, avevo proprio bisogno di tornare su un palco. Il contatto col pubblico mi rende felice, e mi piace far sorridere la gente”.
Quali brani si deve aspettare il pubblico?
“In questo tour prediligo le sonorità soul, blues funky, rock and roll, e anche quando mi esibisco sui miei brani di Sanremo, sono tinti di ’scuro’”.
C’è spazio anche per i suoi pezzi in dialetto?
“Certo! Anche in Liguria mi hanno chiesto canzoni bolognesi, e io ho fatto La Fîra ed San Lâzer. Ormai credo che la bolognesità sia esportata, in carriera mi è capitato di cantare in dialetto persino a New York. Credo sia importante non perderlo, non solo per preservare una ricchezza linguistica, ma anche perché molte persone parlano italiano ma pensano in bolognese, e questo rischia di scomparire”.
Le date ‘bolognesi’ hanno un sapore diverso per lei?
“Racconterò storie legate a Bologna, una città che è profondamente cambiata nello spirito. Un tempo c’era un fermento diverso: per vent’anni, Bologna è stata la capitale del jazz europeo. Ho avuto il privilegio di cenare con leggende come Miles Davis, Chet Baker e molti altri pilastri del jazz americano. E non ero l’unico: i musicisti lavoravano tanto, c’era un sistema che li sosteneva, che offriva loro l’opportunità di confrontarsi con grandi nomi internazionali, se avevano talento. Ed è così che si cresceva, che si diventava davvero grandi”.
Sta scrivendo anche un nuovo libro?
“Due, in realtà. Una recente complicazione in ospedale, una setticemia, mi ha tenuto lontano dalle mie abitudini e passioni: è stato un periodo complesso. Ma ho sfruttato quel tempo per scrivere alcuni testi, ora al vaglio della casa editrice Bompiani. Il primo riflette sul senso dell’esistenza, con un taglio ironico, satirico e politico su ciò che ci circonda. Una delle frasi iniziali è: ’Dove siamo, dove stiamo andando e perché non c’è mai parcheggio – quota ironia, ovviamente’. Il secondo racconta la storia di un architetto che muore per nove minuti e torna a raccontare cosa ha visto. E in questo volume parlo anche della mia esperienza in ospedale, sempre con l’ironia che mi contraddistingue”.