Alan Clark dalle mega arene al piano solo del ‘Bravo’
Dalle mega arene alla nudità del suono: un atto di distillazione senza clamori, ma con un senso estenuato dell’improvvisazione in un cosmo venato di inquietudini sottili che riscaldano la dinamica emotiva delle note. A prometterlo è Alan Clark, tastierista del mito collettivo Dire Straits, stasera in concerto per piano solo al Bravo Caffè (ore 22) con la forza discreta di chi si è riflesso nell’epica del rock e ora sceglie l’intimità di un pianoforte in un piccolo club.
Mister Clark, per lei suonare su un palco con il pubblico che ascolta a pochi passi è come sfogliare un diario sonoro?
“È sussurrare una storia confidenziale condividendo le mie piccole estasi: il piano solo ingombra gli animi più dappresso in un club, lasciando tracce profonde. Ma ha un senso se si sa essere sé stessi. Provo di continuo a distillarne il meglio”.
In ’Backstory’, il suo disco più recente, ha ridotto l’orchestra del rock a un recital spalmato su 88 tasti: è la sfida dell’essenzialità?
“Sì, consapevolmente. Fare tutto col piano, canzoni e direzione, è permettere che la fantasia debordi qua e là. Una performance che mi trasfigura”.
Con quale brano aprirà il concerto?
“Canticchiando mentre suono ’Private Investigations’, il racconto noir della solitudine e dell’alienazione del detective. Un richiamo alle ’terribili ristrettezze’ che diedero il nome al nostro gruppo”.
Dalla confessione individuale alla leggenda Dire Straits: qual è stato il suo ’show up’ personale nei dodici anni di esibizioni live intorno al mondo?
“L’highlight ininterrotto dal giorno in cui nel 1980 entrai a far parte della band come tastierista ufficiale, in sostituzione di David Knopfler. A chiamarmi fu Mark Knopfler, cantante e chitarrista del gruppo con cui scrivemmo album come ’Love over Gold’ e ’Brothers in Arms’. Occasioni speciali, irripetibili per un artista, con 120 milioni di dischi venduti. Quando si sciolsero continuai a far parte dei Dire Straits Legacy“.
L’ingresso nel 2018 nella Rock & Roll Hall of Fame è stato un riconoscimento tardivo o un suggello naturale?
“Propendo per la seconda ipotesi, perché il tempo ti fa conoscere e riconoscere. Un onore sublime, con annesse sensazioni fantastiche”.
Ha condiviso il palco con Bob Dylan, Eric Clapton, Tina Turner: l’incontro che le ha insegnato di più?
“Dico i palchi condivisi con Clapton. Momenti di pura trascendenza. Ogni concerto era un viaggio. Il privilegio di viverlo insieme rimane tra le esperienze più luminose”.
La collaborazione con Renato Zero l’ha trasferita in un mondo diverso: come ha vissuto l’incontro?
“Rimanendone stregato. Facemmo due album, ’Zero il Folle’ e ’Zerosettanta’. Renato è un artista di talento che dà molto sul piano musicale e umano”.
Il ruolo della bellezza che esprime sui tasti?
“Quello di non essere un lusso perché vive nella fragilità che diventa forza, ricordandoci che siamo umani. Trova l’habitat ideale sul pianoforte che è già un universo completo. Ogni generazione continuerà a scoprirlo”.